Un ampio schieramento di forze politiche e sindacali – Italia dei Valori, Sel, Verdi, Federazione della Sinistra, Fiom-Cgil – ha lanciato in settembre un referendum abrogativo della legge Fornero. Ne parliamo con Francesco Bochicchio, avvocato vicino a Sel.
Cosa si propone il referendum?
L’obiettivo è quello di tutelare il lavoro e proteggerlo dalla precarietà ripristinando l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che vietava i licenziamenti ingiustificati, con la sanzione del reintegro nel posto di lavoro: proprio perché il divieto aveva per oggetto esclusivamente i licenziamenti ingiustificati, è ovvio che, al contrario di quanto generalmente sostenuto, era un divieto ragionevole e non penalizzante per le aziende.
Si dice che la legge Fornero vieta rigorosamente e inderogabilmente i licenziamenti discriminatori, vale a dire persecutori: è un argomento dalla natura solo formale ed anzi semantica, perché tale divieto corre il rischio di restare sulla carta. Le aziende infatti avranno cura di nascondere la natura discriminatoria dietro motivazioni apparentemente ineccepibili e la cui inconsistenza e strumentalità diventano non facilmente percepibili. E non è un caso che i primi licenziamenti disposti in applicazione della legge Fornero sono indirizzati pressoché tutti nei confronti di iscritti alla Fiom, dimostrando la fondatezza di quanto qui espresso. Per completezza, vi è da augurarsi che la giurisprudenza sia rigorosa e molto restrittiva nella valutazione dell’inammissibilità dei licenziamenti ed i primi segnali sono incoraggianti (sentenza del Tribunale di Bologna).
Un’osservazione prettamente politica: il “referendum” è necessario anche per lanciare un messaggio chiaro ed inequivocabile; la legge Fornero, nell’abolire l’art. 18, è stata timida e non ha portato la liberalizzazione dei licenziamenti alle estreme conseguenze. E’ una legge che ha un valore simbolico, volta a eliminare quello che era un vero e proprio “tabù”, il divieto di licenziamenti ingiustificati e rappresenta solo un primo passo, cui ne seguiranno di ben più corposi, nel senso dell’eliminazione degli ostacoli alla libertà di licenziamento. Tutto questo è evidente leggendo e ascoltando dietro le righe le dichiarazioni dei massimi rappresentanti politici e imprenditoriali e come detto “apertis verbis” un giorno sì e l’altro pure sul Sole 24 ore e sul Corriere della Sera. E’ bene fermare subito tale inammissibile disegno.
In questo senso il referendum è un segnale forte per bloccare questo piano, volto a privare i lavoratori di qualsiasi tutela.
Perché l’articolo 18 è così importante?
L’articolo 18 è una norma di civiltà che vieta i licenziamenti ingiustificati: l’argomentazione, sostenuta dalla parte più liberista del PD, che si tratta di una discriminazione tra lavoratori protetti e non protetti e quindi difende solo i primi, è inconsistente per due ragioni: perché spinge a “livellare” verso il basso e perché parte da un dato economico-sociale incontrovertibile, noto tra l’altro già dall’800, vale a dire il ricorso da parte delle imprese all’esercito dei lavoratori di riserva. Il fine è quello di portare verso il basso retribuzione e diritti dei lavoratori, ponendo a carico dei lavoratori tale situazione, che invece è imputabile alle imprese.
Dall’art. 18, mantenuto fermo, si può e si deve partire per arrivare a forme di tutela sempre più estese in un’ottica di garantismo generalizzato.
Ma il discorso non si ferma qui, è molto più complesso: l’attacco all’art. 18 è l’attacco all’istituto più rappresentativo del diritto del lavoro e punta a completare lo smantellamento di tutti gli istituti di tutela del lavoratore. E’ l’attacco al diritto del lavoro “tout court” , per eliminarne ogni profilo di garanzia e farlo rientrare in un’ottica puramente contrattualistica, che dimentica la posizione di subordinazione dei lavoratori e la conseguente necessità di garanzia.
Un’economia aperta richiede necessariamente un quadro di elasticità e di deroghe, ma solo se non unilaterale e non a mero vantaggio dell’imprenditore secondo i suoi mutevoli cambi di convenienza. Va quindi assicurato il rispetto dei criteri di sviluppo dell’economia e di crescita dei lavoratori, vale a dire una programmazione dell’alto e la partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle aziende (cogestione) dal basso.
In definitiva, lo scontro è tra due diverse concezioni dell’economia e dell’impresa: l’una, che si combatte, conferisce valore esclusivo all’economicità dell’azienda, secondo criteri non oggettivi ma soggettivi, segue una logica di “delocalizzazione” selvaggia, che alla fine perde di vista la dimensione oggettiva, trascura la stessa impresa quale separata e distinta dall’imprenditore e in definitiva pregiudica la stessa razionalità del capitalismo (quale elaborata da Max Weber). E’ una soluzione che porta alla rovina del capitalismo in quanto tale ed esalta i peggiori aspetti del sistema.
Secondo l’altra concezione, qui sostenuta, si vuole rafforzare ed integrare il sistema, ponendo al centro l’impresa, “micro-cosmo” e protagonista, ma in termini coordinati nell’economia nazionale e con il concorso consapevole e lucido dei lavoratori, non coartato e non posto in una condizione di inferiorità.
La difesa senza se e senza ma dell’art. 18 e quindi il “referendum” sono frutto non di estremismo, ma di riformismo.