La strategia di Chavez fa dello Stato il principale strumento di sviluppo economico, ma allo stesso tempo crea degli spazi per alleanze con il capitale privato e con il mondo imprenditoriale.

 

Le file avevano cominciato a formarsi sin dal mattino presto. Centinaia di persone, poi migliaia, si ammassavano a Piazza Venezuela, a Caracas. Erano in attesa dell’apertura del centro commerciale Bicentenario, che si inaugurava proprio quel giorno. Non era solo la folla di consumatori entusiasti ad attirare l’attenzione. La cosa più notevole era che lo Stato stesso era il proprietario di questo nuovo tempio del commercio, che offriva maggior scelta di prodotti e a prezzi migliori rispetto ai concorrenti privati. Lo stesso Chavez era presente all’inaugurazione.

Il supermercato si trova nella stessa zona dove il gruppo francese Casinò, nazionalizzato nel 2010, voleva aprire il più grande ipermercato del paese. Il governo ha proseguito il progetto, ma creando in più degli spazi dedicati a piccoli negozi, banche e farmacie. Il primo giorno, oltre diecimila clienti sono passati nei reparti che offrono oltre 20.000 prodotti di varie marche.

La febbre consumistica era tale che il gestore del centro commerciale socialista, Jovito Ollarves, si è visto costretto a limitare il numero di prodotti per cliente. “Si tratta di un programma sociale, con proprie regole e restrizioni” spiega percorrendo i reparti mentre cerca di gestire la confusione. “Dobbiamo avere la situazione sotto controllo per garantire la soddisfazione di tutti”.

Cambiamenti

Il caso del Bicentenario è rivelatore di alcuni dei principali movimenti dell’economia venezuelana nel corso di questi ultimi quattordici anni: diminuzione della disoccupazione, aumento delle entrate e del ruolo dello Stato, partecipazione subordinata del capitale privato e pressione inflazionistica dei consumi. La ressa riflette bene il processo in corso. I cambiamenti avvengono in uno scenario fatto di conflitti, tensioni e aspettative.

Il primo passo dell’amministrazione Chavez è stato rompere progressivamente con i paradigmi di quella che era chiamata “agenda Venezuela”, il programma elaborato dal giornalista ed economista Teodoro Perkoff quando era ministro della pianificazione sotto il governo di Rafael Caldera, ultimo presidente della IV repubblica. Sotto tale denominazione l’amministrazione Copei (centrodestra) aveva riunito varie misure di privatizzazione, come quelle dell’industria petrolifera, e tagli alla spesa pubblica. Nemmeno la previdenza sociale era stata risparmiata. Una delle misure, per esempio, era stata l’eliminazione dell’indennità di fine lavoro. Ironia della storia: Petkoff, ora all’opposizione, era stato per il passato un importante leader guerillero e ideologo di sinistra.

In definitiva, la politica di Caldera facilitava gli investimenti stranieri alla ricerca di buoni affari, ma deprimeva i consumi popolari, limitando i diritti, diminuendo i servizi pubblici e privatizzando la ricchezza. Stando alle cifre offerte dall’Asociación Latinoamericana de Integración (ALADI), quando nel 1999 Chavez è salito al potere l’inflazione sfiorava il 30% annuo, l’80% della popolazione viveva in povertà, il 30% in miseria, la disoccupazione toccava il 18%, e il 37% dei venezuelani soffriva di denutrizione.

Il prezzo al barile del petrolio, intorno ai 9 dollari Usa, è stato un altro dei lasciti di Caldera. La principale ricchezza del paese, della quale il Venezuela era il terzo importatore al mondo, era deprezzata dalla subordinazione dell’OPEC agli interessi nordamericani ed europei da una parte, e dall’altra da una serie di leggi che faceva del PDVSA una impresa pubblica che lo stato non controllava.

I primi anni, fino al 2003, sono stati complicati. Le energie del governo erano assorbite dalle battaglie per la trasformazione del sistema politico, in modo da ristabilire gli strumenti necessari perché lo Stato potesse perseguire una politica economica. Confrontata ad avvenimenti destabilizzanti, come il colpo di stato e l’embargo da parte del mondo imprenditoriale del 2002, la produzione è crollata tre volte nei primi cinque di governo. In particolare: – 6% in 1999, – 8,9% nel 2002, – 9,2% nel 2003. Nel 2000 era aumentata del 3,2%, nel 2001 del 2,8%. Il bilancio del primo quinquennio era dunque negativo: una diminuzione del 17,60%.

L’offensiva di una parte del mondo imprenditoriale e dei suoi associati stranieri era una risposta alle riforme adottate da Chavez nel 2001, in particolare la legge sulla proprietà terriera, che ha lanciato la riforma agricola, e quella sugli idrocarburi, che ha alterato profondamente le regole sulla proprietà e l’imposizione fiscale del petrolio.

“Le imprese del settore pagavano fino ad allora poco più dell’1% di imposte” riferisce Nelson Merentez, attuale presidente della Banca Centrale, ex ministro delle finanze e simpatico professore di matematica che trova ancora il tempo di insegnare. “Il governo ha portato questa percentuale a 33 % e ha trasformato PDVSA in associata di maggioranza di tutte le società del settore, oltre a prendere il controllo dell’impresa pubblica che, prima, era praticamente uno Stato dentro lo Stato”.

Solo nel 2003, con il fallimento dell’embargo posto dal mondo imprenditoriale, il governo del Chavez riuscì a prendere il controllo della principale fonte di sviluppo per il Venezuela: il petrolio. In precedenza, il presidente aveva ottenuto degli accordi, in seno all’OPEC, per la riduzione della produzione petrolifera. con il prezzo del petrolio che saliva a 23$ a barile, iniziando una scalata che lo avrebbe portato agli oltre 100$ di questi ultimi anni. Le condizioni economiche hanno cominciato a cambiare.

A partire dal 2004, il primo obiettivo del governo è stato ampliare i programmi sociali, a cominciare, per esempio, dalla sanità e dall’educazione pubblica. Oltre a far fronte alla drammatica situazione di povertà, miseria e distruzione dei servizi pubblici ereditata, era uno dei mezzi per aumentare i consumi delle famiglie parallelamente alla spesa pubblica. Risultato: una robusta ripresa dell’economia, con aumento dell’occupazione e dei redditi.

L’aumento del prezzo del barile sui mercati internazionali, associato agli investimenti sociali e alla messa in opera di nuovi progetti di infrastrutture, ha potenziato i numeri del paese. Nel secondo quinquennio di Chavez, il tasso di crescita del PIL è stato il più alto dell’America del Sud e uno dei più importanti al mondo. Un salto del 61% nel periodo, con una media annuale superiore al 10%. La crescita è crollata solo nel 2009 (-3,3%) e nel 2010 (-1;4%), durante la crisi internazionale, prima di risalire nel 2011 /+4%).

Industrializzazione e infrastrutture

Le nuove risorse fiscali e finanziarie all’origine di quest’episodi di prosperità hanno dato nuovo impulso all’espansione delle politiche sociali. Tanto che il Venezuela è diventato il paese con la minore diseguaglianza sociale del sotto-continente americano. Miseria e povertà si sono drasticamente ridotte. Ma tutte queste risorse sono servite anche, in particolare dopo il 2003, a dotare lo Stato di più potenti meccanismi di intervento sull’economia.

Sono stati creati fondi pubblici per finanziare industrializzazione e infrastrutture, oltre agli investimenti nel campo sociale. Il più importante è il Fondo di Sviluppo Nazionale (Fondem), creato nel 2005 e dotato di un capitale iniziale di 6 miliardi di dollari, che nel 2012 ha raggiunto i 100 miliardi. Sostenuto dalle entrate fiscali derivanti dal petrolio e dalle riserve della Banca Centrale, questo fondo ha oggi un portafoglio di oltre 400 progetti di ampia portata, ed a permesso allo Stato di nazionalizzare imprese di settori considerati strategici, di realizzare opere logistiche e di sostenere programmi sociali.

Benché in origine la nazionalizzazione fosse prevista solo per alcuni settori strutturali dell’economia (energia, telecomunicazioni, sistema finanziario), ha poi finito per allargarsi, talvolta in modo caotico, ad altri settori di attività. Lo Stato ha acquisito numerose imprese per risolvere strozzature nel settore produttivo, problemi di offerta, o per spezzare le resistenze capitaliste alle politiche del governo o alle esigenze dei lavoratori.

La fuga dei capitali è stata una delle scappatoie più utilizzate dagli imprenditori che non volevano sottomettersi alle nuove regole o che non trovavano più interesse a investire nel paese. Secondo i dati della Banca Centrale, dopo la rielezione di Chavez nel 2006, in poche settimane oltre 10 miliardi di dollari sono stati mandati all’estero. Il governo ha allora deciso di centralizzare il tasso di cambio ed ha obbligato qualunque rimessa o importazione di valuta a passare attraverso un rigido sistema di autorizzazione. In questo contesto, la nazionalizzazione è servita in molti casi a punire talune imprese e impedire il loro svuotamento.

La questione primaria rimane il fatto che la crescita accelerata del mercato interno, spinta dalla crescita dei salari, dall’aumento dell’impiego e dall’espanzione dei servizi sociali, ha messo la produzione del paese grandi difficoltà. Mentre l’inflazione annua è intorno al 25%, la rivalutazione dei salari si situa al di sotto di quest’indice. A varie riprese, l’esplosione della domanda ha provocato scarsità dei prodotti.

La ricerca di soluzioni a questi problemi è all’ordine del giorno. “Noi non siamo un’economia liberale”, sottolinea Merentez. “La nostra logica non è quella di ridurre la domanda per proteggere la remunerazione del capitale a tutti i costi, ma piuttosto di aumentare l’offerta attraverso investimenti crescenti in diverse forme di proprietà.

Quattro tipi di economia

Certamente il peso del settore statale ha acquisito un’importanza di rilievo negli ultimi tempi. Tuttavia, non esiste alcuna voce importante nel governo che difenda un modello ispirato alle esperienze sovietiche o cubane, marcate dalla statalizzazione di praticamente tutti i mezzi di produzione e di distribuzione.

Leggi precise hanno di recente fissato l’associazione tra quattro tipi di economia. Il primo, controllato dallo stato, si basa sui pilastri, come già menzionato, dello sviluppo nazionale. Un secondo, a carattere privato e basato sulla concorrenza, si concentrata su quelle nicchie che non hanno influenza sul funzionamento strategico del paese. Il terzo tipo, a capitale misto, presenta l’associazione dello Stato con imprese private nazionali o società straniere. Il quarto tipo, infine, raggruppa l’economia cooperativa e comunitaria, basata sull’autogestione e di proprietà dei consigli di comunità.

Questa quarta forma, ispirata alla lontana ai metodi applicati nella Jugoslavia di Tito tra il 1950 e il 1980, è attualmetne l’orgoglio di molti dirigenti del paese. Si tratta, in definitiva, di una strategia di imprenditorialità collettiva. I cittadini, e le loro organizzazioni, possono creare imprese in grado di offrire servizi, produrre beni a bassa complessità tecnologica, e provedere parzialmente alla domanda alimentare.

“Lo sviluppo dell’economia comunitaria è fondamentale per dirottare l’inflazione ed evitare situazioni di scarsità di prodotti”. Così l’eterodosso presidente della Banca Centrale difende questo sistema. “Buona parte dei prodotti e dei servizi fondamentali per la popolazione possono essere forniti a livello locale, rispondendo alla domanda e generando reddito là dove vivono i cittadini, sotto il loro controllo e proprietà”.

Il sogno di un’economia senza Stato e senza padroni non è del tutto nuovo. Ma in Venezuela, si trova stimolato dalle entrate derivanti dal petrolio, oggi completamente sotto il controllo statale, che può persino permettersi il lusso di mettere le ali all’immaginazione.

Traduzione di Giuseppina Vecchia

Fonte : http://operamundi.uol.com.br/conteudo/babel/23986/un+mod%E8le+economique+qui+allie+socialisme+et+marche.shtml