Cominciamo con le linee rosse. Eccola qui, la linea rossa finale di Washington, direttamente dalla bocca
del leone: solo la scorsa settimana il Segretario della Difesa Leon Panetta ha detto degli iraniani: “Stanno
cercando di sviluppare un’arma nucleare? No. Ma noi sappiamo che stanno cercando di sviluppare un
potenziale nucleare. Ed è quello che ci preoccupa. E la nostra linea rossa all’Iran è di non sviluppare armi
nucleari. Quella per noi è una linea rossa.”

Che strano, come quelle linee rosse continuino a ritirarsi. Una volta la linea rossa per Washington era
l’”arricchimento” dell’uranio. Ora è evidentemente un’effettiva arma nucleare a poter essere brandita.
Tenete presente che, dal 2005, il Supremo Leader iraniano Ayatollah Khamenei ha sottolineato che il
suo paese non sta cercando di costruire un’arma nucleare. La più recente stima del National Intelligence
ha ugualmente sottolineato che l’Iran non sta, in effetti, sviluppando un’arma nucleare (in contrasto con
l’implicita capacità di poterne un giorno costruire una).

Comunque che direste se non ci fosse nessuna “linea rossa”, ma qualcosa di completamente differente?
Potremmo chiamarla la linea del petrodollaro.

Banche sotto sanzione?

Cominciamo da qui: a dicembre 2011, impermeabile alle disastrose conseguenze per l’economia globale,
il Congresso USA – sotto le solite pressioni delle lobby israeliane (non che ne avesse bisogno) – ha rifilato
un pacchetto obbligatorio di sanzioni all’amministrazione Obama (da 100 a 0 al Senato e con soli 12 “no”
alla Camera). A partire da giugno gli USA dovranno sanzionare qualunque banca o azienda di paesi terzi che
tratti con la Banca Centrale Iraniana, cosa che significa paralizzare le vendite di petrolio del paese – anche
se il Congresso ha permesso alcune “eccezioni”.

L’obiettivo finale? Un cambio di regime – che altro? – a Teheran. Il proverbiale anonimo funzionario USA
ha ammesso molto sul Washington Post, e il giornale ha pubblicato il commento (“L’obiettivo delle sanzioni
di USA e altri contro l’Iran è una caduta del regime, ha affermato un alto funzionario USA, offrendo la più
chiara indicazione del fatto che l’amministrazione Obama è almeno altrettanto intenzionata a scalzare il
governo iraniano quanto ad esserne coinvolta”). Ma ops! Il giornale ha poi dovuto rivedere il passaggio per
eliminare quell’imbarazzante citazione che ha centrato il bersaglio. Indubbiamente, questa “linea rossa” è
arrivata troppo vicina alla verità per non essere scomoda.

L’ex presidente del Joint Chiefs of Staff, Ammiraglio Mike Mullen, riteneva che solo un evento in stile
mostruosamente scioccante e impressionante, che umiliasse completamente la leadership di Teheran,
avrebbe condotto a un genuino cambiamento di regime – e lui non era certo il solo. I sostenitori di azioni
che vanno dall’attacco aereo all’invasione (dagli Usa, da Israele o da una combinazione dei due) sono stati
una legione, tra i neoconservatori di Washington (vedere, per esempio, il rapporto 2009 della Brookings
Institution, “Quale percorso verso la Persia?”)

Eppure chiunque sia vagamente informato sull’Iran saprebbe che un tale attacco compatterebbe la
popolazione sotto Khamenei e le Guardie Rivoluzionarie. In tali circostanze, la profonda avversione di molti
iraniani verso la dittatura militare dei mullah poco importerebbe.

Inoltre, anche l’opposizione iraniana appoggia un programma nucleare pacifico, è una questione di orgoglio
nazionale.

Gli intellettuali iraniani, assai più ferrati sul fumo e gli specchi persiani degli ideologi di Washington, sfatano
totalmente qualunque scenario di Guerra. Essi sottolineano che il regime di Teheran, abile nell’arte del
gioco di ombre persiano, non ha intenzione di provocare un attacco che potrebbe portare alla sua totale
distruzione. Da parte loro, correttamente o no, gli strateghi di Teheran presumono che Washington non si
dimostrerà in grado di lanciare un’altra guerra nel Medio Oriente, specialmente una che possa portare a
sconcertanti danni collaterali per l’economia mondiale.

Nel frattempo le aspettative di Washington sul fatto che un regime di dure sanzioni possa portare
gli iraniani a perdere terreno, se non a cadere, potrebbe rivelarsi una chimera. L’interpretazione di
Washington si è incentrata sulla presunta disastrosa mega-svalutazione della moneta iraniana, il rial,
di fronte alle nuove sanzioni. Sfortunatamente per i fan del collasso economico iraniano, il Professor
Djavad Salehi-Isfahani ha dettagliatamente esposto la natura a lungo termine di questo processo, che gli
economisti iraniani hanno accolto più che bene. Dopotutto, esso promuove le esportazioni non petrolifere
dell’Iran e aiuta l’industria locale in competizione con le importazioni cinesi a buon mercato. In sintesi: un
rial svalutato ha ragionevoli probabilità di ridurre effettivamente la disoccupazione in Iran.

Anche se pochi negli USA l’hanno notato, l’Iran non è proprio “isolato”, benchè Washington possa
desiderarlo. Il Primo Ministro pakistano Yusuf Gilan è diventato un assiduo visitatore di Teheran. E lui è un
ritardatario in confronto al capo nazionale della sicurezza russo Nikolai Patrushev, che appena di recente
ha messo in guardia gli israeliani dallo spingere gli USA ad attaccare l’Iran. Aggiungeteci anche l’alleato USA
e Presidente afgano Hamid Karzai. Ad un loya Jirga (“gran consiglio”) a fine 2011, di fronte a 2000 leader
tribali, ha sottolineato che Kabul stava progettando di avvicinarsi ancora di più a Teheran.

In quella cruciale scacchiera eurasiatica, Pipelineistan, il gasdotto Iran-Pakistan (IP) – con grande disagio di
Washington – è al via. Il Pakistan ha urgente bisogno di energia e la sua leadership ha chiaramente deciso
che non è disposta ad aspettare all’infinito che l’eterno principale progetto di Washington – il gasdotto
Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI) – attraversi il Talibanistan.

Anche il Ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ha recentemente visitato Teheran, benché le relazioni
con l’Iran siano sempre state spigolose. Dopotutto, l’energia prevale sulle minacce alla regione. La Turchia,
membro della NATO, è già coinvolta in operazioni segrete in Siria, alleata con l’ala dura dei fondamentalisti
sunniti in Iraq e – in un notevole volta-faccia sulla scia della Primavera Araba – ha scambiato l’asse Ankara-Teheran-Damasco con quello di Ankara-Riyadh-Doha. Sta anche progettando di ospitare il sistema di difesa missilistico da tempo pianificato da Washington, il cui bersaglio è l’Iran.

Tutto questo da un paese con una politica estera, coniata da Davutoglu – di “zero problemi con i nostri
vicini”. Tuttavia, la necessità del Pipelineistan certamente detta l’accorata corsa. La Turchia è alla disperata
ricerca di accesso alle risorse energetiche dell’Iran, e se il gas iraniano raggiungerà mai l’Europa Occidentale
– qualcosa che gli europei desiderano disperatamente – la Turchia sarà il paese di transito privilegiato. I
leader turchi hanno già segnalato il loro rifiuto ad ulteriori sanzioni contro il petrolio iraniano.

E a proposito di collegamenti, la settimana scorsa c’è stata quella spettacolare piece teatrale diplomatica,
il tour del Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad in America Latina. L’ala destra USA può battere sul
tasto di un’asse del male Teheran-Caracas che presumibilmente promuova il “terrore” in tutta l’America
Latina come trampolino di lancio per futuri attacchi alla superpotenza del nord, ma, tornando alla vita
reale, un altro tipo di verità si cela. Dopo tutti questi anni, Washington non è ancora in grado di digerire
l’idea di avere perso il controllo, o anche l’influenza, su queste due potenze regionali sulle quali un tempo
esercitava un’assoluta egemonia imperiale.

A questo aggiungete il muro di diffidenza che dalla rivoluzione islamica in Iran del 1979 si è solo solidificato.
Mescolate a una nuova, per lo più sovrana, America Latina – che preme per l’integrazione non solo attraverso i governi di sinistra del Venezuela, della Bolivia e dell’Ecuador ma attraverso le potenze regionali
di Brasile e Argentina. Agitate e otterrete la foto di operazioni come quella di Ahmadinejad e del Presidente
Venezuelano Hugo Chavez che salutano il Presidente nicaraguense Daniel Ortega.

Washington continua a spingere una visione del mondo dalla quale l’Iran è stato radicalmente scollegato. E’
tipico ultimamente sentir dire al portavoce del Dipartimento di Stato Victoria Nuland: “L’Iran può rimanere
in isolamento internazionale”. Come spesso accade, però, ha bisogno di fare chiarezza su alcuni fatti.

L’”isolato” Iran ha 4 miliardi di dollari in progetti comuni con il Venezuela inclusa, soprattutto, una banca
(come con l’Ecuador, ha dozzine di progetti pianificati, dalla costruzione di centrali energetiche a, ancora
una volta, banche). Cosa che ha portato il primo spettatore israeliano a Washington a chiedere a gran voce
che le sanzioni fossero sbattute in faccia al Venezuela. Solo un problema: come pagherebbero poi gli USA le
loro cruciali importazioni di petrolio venezuelano?

Molto è stato detto dalla stampa americana sul fatto che Ahmadinejad in questa gita latinoamericana non
ha visitato il Brasile, ma Teheran e Brasilia rimangono diplomaticamente sincronici. Quando si tratta in
particolare del dossier nucleare, la storia del Brasile lascia i suoi leader in sintonia. Dopotutto quel paese
ha sviluppato – e poi lasciato cadere – un programma di armamento nucleare. Nel maggio 2010 Brasile
e Turchia hanno negoziato un accordo di scambio di uranio per l’Iran che può avere preparato all’azione
dell’imbroglio USA sul nucleare iraniano. Comunque è stato immediatamente sabotato da Washington.
Membro chiave del BRICS, il club delle maggiori economie emergenti, Brasilia si è totalmente opposta alla
strategia USA delle sanzioni/embargo.

Quindi l’Iran può essere “isolato” dagli Stati Uniti e dall’Europa Occidentale, ma dai BRICS ai NAM (i 120
paesi membri del Movimento dei Non Allineati), ha dalla sua la maggior parte del Sud del mondo. E poi,
naturalmente, ci sono quei fedeli alleati di Washington, Giappone e Corea del Sud, che ora supplicano per
l’esenzione dal prossimo boicottaggio/embargo della Banca Centrale Iraniana.

Nessuna meraviglia, perché queste sanzioni unilaterali USA mirano anche all’Asia. Dopotutto Cina, India,
Giappone e Corea del Sud, insieme, comprano non meno del 62% delle esportazioni di petrolio iraniano.

Con il marchio della galanteria asiatica, il Ministro delle Finanze giapponese Jun Azumi ha fatto sapere al
Segretario del Tesoro Timothy Geithner che problema Washington stia creando a Tokyo, che conta sull’Iran
per il 10% del suo fabbisogno petrolifero. Sta promettendo di “ridurre” almeno un po’ quella quota “il più
presto possibile” per ottenere da Washington l’esenzione da quelle sanzioni, ma non trattenete il respiro.
La Corea del Sud ha già annunciato che nel 2012 comprerà il 10% del suo fabbisogno petrolifero dall’Iran.

La resuscitata Via della Seta

Cosa più importante di tutte, l’”isolato” Iran sembra essere una questione di suprema importanza per la
sicurezza nazionale della Cina, che ha già rigettato le ultime sanzioni di Washington senza batter ciglio.
Gli occidentali sembrano avere dimenticato che il Regno di Mezzo e la Persia fanno affari da almeno due
millenni. La “Via della Seta” non fa suonare un campanello d’allarme?

I cinesi hanno già concluso un succoso accordo per lo sviluppo del più grande giacimento petrolifero
iraniano, Yadavaran. C’è anche la questione della fornitura del petrolio del Mar Caspio dall’Iran attraverso
un gasdotto che si estende dal Kazakistan alla Cina Occidentale. In realtà, l’Iran già fornisce non meno del
15% del petrolio e del gas naturale cinesi. Ora è più cruciale per la Cina, nel senso dell’energia, di quanto la
House of Saud lo sia per gli USA, che importano l’11% del loro petrolio dall’Arabia Saudita.

In realtà, la Cina potrebbe uscire dalle nuove sanzioni di Washington come il vero vincitore, perché è
probabile che otterrebbe il suo petrolio e il suo gas a un prezzo minore, dato che gli iraniani diventano
sempre più dipendenti dal mercato cinese. In questo momento, infatti, i due paesi sono nel mezzo di un
complesso negoziato sul prezzo del petrolio iraniano, e i cinesi hanno effettivamente alzato la pressione
tagliando leggermente gli acquisti sull’energia. Ma tutto questo dovrebbe concludersi a marzo, almeno due
mesi prima che l’ultimo round di sanzioni USA entri in vigore, d’accordo agli esperti di Pechino. Alla fine, i
cinesi compreranno certamente molto più gas iraniano che petrolio, ma l’Iran rimarrà ancora il loro terzo
maggior fornitore di petrolio, subito dopo l’Arabia Saudita e l’Angola.

Per quanto riguarda gli altri effetti delle nuove sanzioni sulla Cina, non contate su di loro. Imprese cinesi
in Iran stanno costruendo automobili, reti di fibre ottiche, ed espandendo la metropolitana di Teheran.
Il commercio bilaterale ammonta ora a 30 miliardi di dollari e ci si aspetta che raggiunga i 50 milioni di
dollari nel 2015. Le imprese cinesi troveranno un modo per aggirare i problemi bancari imposti dalle nuove
sanzioni.

La Russia è, ovviamente, un altro sostenitore chiave dell’”isolato” Iran. Si è opposta al rafforzamento delle
sanzioni sia attraverso le Nazioni Unite, sia attraverso il pacchetto approvato da Washington che colpisce la
Banca Centrale iraniana. Infatti è a favore di una riduzione delle sanzioni USA attuali e ha anche lavorato su
un piano alternativo che potrebbe, almeno teoricamente, portare a un accordo nucleare che salverebbe la
faccia a tutti.

Sul fronte nucleare, Teheran ha espresso una volontà di compromesso con Washington sulla linea del piano
suggerito da Brasile e Turchia e rigettato da Washington nel 2010. Dal momento che ora è assai più chiaro
che, per Washington – certamente per il Congresso – la questione nucleare è secondaria a un cambio di
regime, qualunque nuovo negoziato è destinato a dimostrarsi insopportabilmente doloroso.

Questo è particolarmente vero adesso che i leader dell’Unione Europea sono riusciti a togliersi da futuri
tavoli negoziali sparandosi sui piedi vestiti by Ferragamo. Come tipicamente di moda, hanno docilmente
seguito le direttive di Washington nell’attuazione di un embargo del petrolio iraniano. Come un alto
funzionario europeo ha detto al Presidente del Consiglio Nazionale Irano-Americano Trita Parsi, e come
diplomatici europei mi hanno assicurato senza mezzi termini, temono che questo possa rivelarsi l’ultimo
passo molto prossimo a una vera e propria guerra.

Nel frattempo una squadra di ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha appena visitato
l’Iran. L’AIEA sta supervisionando tutte le questioni nucleari in Iran, incluso il suo nuovo impianto per
l’arricchimento dell’uranio a Fordow, vicino alla città sacra di Qom, che produrrà a pieno regime da giugno.
L’AIEA è positiva: non è coinvolta alcuna costruzione di bombe. Ciononostante, Washington (e Tel Aviv)
continuano ad agire come se quella fosse solo una questione di tempo – e neanche tanto.

Seguire i soldi

Questa questione dell’isolamento iraniano si indebolisce solo quando si apprende che il paese sta
esportando sottocosto il dollaro nei suoi scambi con la Russia per rials e rubli – una mossa simile a quella
già fatta nei suoi scambi con Cina e Giappone. Per quanto riguarda l’India, una potenza economica nelle
vicinanze, anche i suoi leader si sono rifiutati di smettere di acquistare petrolio iraniano, un commercio
che, nel lungo periodo, è altrettanto improbabile che sarà condotto in dollari. L’India sta già utilizzando lo
yuan con la Cina, così come Russia e Cina stanno commerciando in rubli e yuan da più di un anno, e come
Giappone e Cina stanno promuovendo commerci diretti in yen e yuan. Per quanto riguarda l’Iran e la Cina,
tutti i nuovi scambi e gli investimenti congiunti saranno saldati in yuan e rial.

Traduzione, semmai ce ne fosse bisogno: in un futuro prossimo, con gli europei fuori dalla mischia,
virtualmente il petrolio iraniano non verrà scambiato in dollari.

Inoltre, tre membri del BRICS (Russia, India, e Cina) alleati dell’Iran sono tra i maggiori detentori (e
produttori) di oro. I loro complessi legami commerciali non saranno influenzati dai capricci di un Congresso
USA. Infatti, quando il mondo in via di sviluppo guarda la profonda crisi dell’Occidente Atlantista, ciò che
vede è il massiccio debito degli Stati Uniti, la Fed che stampa denaro come se non ci fosse un domani, un
sacco di “facilitazioni quantitative”, e naturalmente l’Eurozona scuotersi fin nelle fondamenta.

Seguite I soldi. Lasciate da parte, per il momento, le nuove sanzioni sulla Banca Centrale iraniana che
entreranno in vigore tra alcuni mesi, ignorate le minacce iraniane di chiudere lo Stretto di Hormuz
(altamente improbabile dato che è il canale principale attraverso cui l’Iran fa arrivare il proprio petrolio
al mercato), e forse una ragione chiave della crescita della crisi nel Golfo comprende la mossa di silurare i
petrodollari come moneta di scambio per eccellenza.

E’ stata capeggiata dall’Iran ed è destinata a tradursi in un’ansiosa Washington, che non fronteggia solo una
potenza regionale, ma i suoi maggiori concorrenti strategici, Cina e Russia. Non meraviglia che tutti questi
vettori stiano puntando ora verso il Golfo, benché sia una strana resa dei conti – un caso di potenza militare
schierata contro una potenza economica.

In questo contesto vale la pena ricordare che nel settembre 2000 Saddam Hussein abbandonò il
petrodollaro come valuta di pagamento per il petrolio iracheno e si spostò sull’euro. Nel marzo 2003 l’Iraq
venne invaso e vi fu un inevitabile cambio di regime. La Libia di Muammar Gheddafi propose il dinaro d’oro sia come valuta corrente africana che come valuta di pagamento per le risorse energetiche del suo paese.
Un altro intervento e un altro cambio di regime sono seguiti.

Washington/NATO/Tel Aviv, comunque, offrono un racconto differente. Le “minacce” dell’Iran sono il cuore
dell’attuale crisi, anche se queste sono, in realtà, la reazione di quel paese alla segreta guerra non-stop
USA/Israeliana e adesso, ovviamente, anche guerra economica. Sono queste “minacce”, così narra la storia,
che stanno portando all’aumento del prezzo del petrolio e alimentando l’attuale recessione, invece del
capitalismo da casinò di Wall Street o del massiccio debito di USA ed Europa. La crema dell’1% non ha nulla
contro gli alti prezzi del petrolio, non fino a quando l’Iran rimane il capro espiatorio della rabbia popolare.

In qualità di esperto dell’energia, Michael Klare ha recentemente sottolineato che noi ora ci troviamo
in una nuova era geo-energetica che sarà di sicuro estremamente turbolenta nel Golfo e altrove. Ma
considerate il 2012 anche l’anno di partenza di una possibile massiva defezione dal dollaro come valuta
di elezione globale. Come percezione è alquanto reale, immaginate il mondo reale – per lo più il Sud del
mondo – fare i necessari calcoli e, poco a poco, cominciare a fare affari nelle proprie valute e investire
sempre meno dei loro residui attivi in buoni del tesoro statunitensi.

Naturalmente, gli USA possono sempre contare sul Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) – Arabia
Saudita, Qatar, Oman, Bahrein, Kuwait e Emirati Arabi Uniti -, che io preferisco chiamare il Club della
Controrivoluzione del Golfo (basta guardare le loro prestazioni durante la Primavera Araba). A tutti i
fini pratici geopolitici, le monarchie del Golfo sono una satrapia degli USA. La loro promessa, vecchia di
decenni, di usare solo i petrodollari, li rende un’appendice della proiezione di potenza del Pentagono
in tutto il Medio Oriente. Centcom, dopotutto, è ubicata nel Qatar; la Quinta Flotta USA è stanziata nel
Bahrein. In realtà, nei territori immensamente ricchi di energia che potremmo chiamare il Pipelineistan
Maggiore – e che il Pentagono era solito chiamare l’”arco di instabilità” – che si estende attraverso l’Iran
fino all’Asia Centrale, il GCC resta la chiave per un senso dell’egemonia USA che si va assottigliando.

Se questa fosse una riscrittura economica della storia di Edgar Allan Poe, “Il pozzo e il pendolo”, l’Iran non
sarebbe che un ingranaggio in una infernale macchina che lentamente va triturando il dollaro in quanto
valuta di riserva mondiale. Eppure, si tratta dell’ingranaggio sul quale ora Washington è focalizzata. Hanno
nella testa un cambio di regime. Tutto ciò di cui c’è bisogno è una scintilla per aprire il fuoco (in – ci si
affretta ad aggiungere – tutte le direzioni che sono destinate a prendere Washington alla sprovvista).

Ricordate l’Operazione Northwoods, quel piano del 1962 redatto dal Joint Chiefs of Staff per mettere in
scena operazioni terroristiche negli USA e darne la colpa alla Cuba di Fidel Castro (il Presidente Kennedy
cassò l’idea). O rammentate l’incidente del Golfo di Tokin nel 1964, usato dal Presidente Lyndon Johnson
come giustificazione per ampliare la guerra nel Vietnam. Gli USA accusarono le torpediniere nord-
vietnamite di attacchi ingiustificati alle navi USA. Più tardi, divenne chiaro che uno degli attacchi non era
mai avvenuto e che il presidente a quel proposito aveva mentito.

Non è affatto inverosimile immaginare gli irriducibili professionisti della Dominazione-ad-ampio-
spettro all’interno del Pentagono cavalcare un incidente sotto falsa bandiera verso un attacco all’Iran (o
semplicemente usarlo per fare pressione su Teheran verso un fatale errore di calcolo). Considerate anche
la nuova strategia militare USA appena inaugurata dal Presidente Obama, in cui il centro dell’attenzione di
Washington è quello di spostarsi da due fallimentari guerre terrestri in Medio Oriente verso il Pacifico (e
quindi la Cina). L’Iran sembra essere proprio nel mezzo, nel sud-ovest asiatico, con tutto quel petrolio che
si dirige verso un moderno Regno di Mezzo affamato di energia sulle acque custodite dalla Marina deli Stati
Uniti.

Quindi sì, questo infinito psicodramma che chiamiamo “Iran” potrebbe rivelarsi essere relativo tanto alla
Cina e al dollaro USA quanto alle politiche del Golfo, o all’inesistente bomba iraniana. La domanda è: quale
ruvida bestia, la cui ora infine ritorna, si trascina per nascere verso Pechino?

Pepe Escobar è il corrispondente itinerante per il Times Asia. Il suo ultimo libro si chiama Obama Does
Globalistan (Nimble Books, 2009). Si può contattarlo scivendo a pepeasia@yahoo.com

[Abbiamo avuto dall’autore il
permesso di pubblicare la sua storia, apparsa su Times Asia, su Pressenza]

Traduzione all’italiano di Matilde Mirabella per Traduttori Pressenza