Una convinzione piuttosto diffusa è che la crisi economica sia qualcosa di incontrollabile, un processo che una volta iniziato, alla stregua di una fusione nucleare, è impossibile da fermare. Altra convinzione che si sente più volte ripetere, come un mantra, è che le misure della exit-strategy proposta da Monti sono “le uniche possibili”, che il rigore e l’austerità sono inevitabili. Queste convinzioni finiscono per legittimare le posizioni dei poteri dominanti e per farci abbandonare ogni battaglia in virtù di un bene e di una coesione nazionale superiori.
Idee del genere sono del tutto infondate. La crisi e le sue evoluzioni sono il risultato di precise politiche economiche decise a livello mondiale ed europeo. Basta dare uno sguardo ad altri paesi, seguire altri esempi, per accorgersi che politiche diverse conducono a risultati opposti; che è possibile uscire dalla crisi senza passare per misure economiche restrittive.
Diamo uno sguardo a quanto accaduto in Argentina. Dieci anni fa il paese era travolto e portato al fallimento da uno tsunami economico. Le cause della crisi affondavano le radici negli anni Novanta, quando per combattere un’inflazione galoppante, che aveva raggiunto la percentuale record del 5mila per cento nel 1989 (con tassi mensili del 200 per cento), il nuovo governo guidato da Carlos Menem decise di ancorare la valuta nazionale al dollaro.
Il cambio venne fissato dall’allora ministro dell’economia Domingo Cavallo nel rapporto di 1 ad 1: ogni dollaro Usa veniva scambiato per peso argentino; la banca centrale argentina era costretta a tenere nelle proprie casse riserve in dollari pari al valore della quantità di moneta in circolazione.
Il sistema riuscì in effetti nell’intento che si era preposto: l’inflazione della moneta si arrestò in fretta. Ma al tempo stesso il nuovo cambio fisso rendeva improvvisamente convenienti le importazioni, al punto che la produzione subì una brusca frenata; il paese andò incontro ad una vera e propria deindustrializzazione.
Nel frattempo il debito pubblico continuava ad aumentare. Un debito che, a detta del giornalista Denis Robert, autore del saggio Revelation$ (2001), era finanziato in modo illegale da alcuni grossi gruppi – fra cui Citibank – attraverso dei fondi nascosti. Questo sistema aveva fatto crescere il volume dell’economia sommersa argentina e alimentava la pratica dell’evasione fiscale e della fuga dei capitali all’estero.
Per pagare il debito il Fondo Monetario Internazionale – da sempre complice, per molti persino mandante nascosto, dei governi argentini fin dagli anni cinquanta – concedeva volentieri nuovi prestiti e dilazioni nei pagamenti dei vecchi, ma gli interessi erano sempre più elevati. E cosa faceva il governo per farvi fronte? Faceva quello che i dettami liberisti prevedono in questi casi: privatizzava.
Privatizzava, vendeva, svendeva, e con il flusso di denaro dall’estero ripagava prestiti e debito. Finché non ci fu più niente da vendere. E fu allora che, con la produzione e la crescita ferme, scoppiò la crisi più nera.
Nel 1999 il Pil diminuì del 4 per cento e il paese entrò in recessione. Gli investitori persero in fretta la propria fiducia e la fuga di capitali all’estero aumentò. Nel 2001, con la disoccupazione alle stelle, un debito enorme e l’economia in recessione iniziò una folle corsa agli sportelli: i cittadini presi dal panico iniziarono uno dopo l’altro a ritirare i propri risparmi per convertirli in altre valute.
Per arginare il fenomeno il governo decise di applicare una serie di misure, note come corralito che congelavano i conti bancari degli argentini e rendevano possibili solo piccoli prelievi. Questo ebbe come effetto principale di esasperare ancora di più i cittadini, che scesero in piazza per protesta.
Le manifestazioni che nascevano spontanee presero il nome di cacerolazos, dal rumore che i manifestanti ottenevano percuotendo pentole, tegami, padelle e casseruole con mestoli e cucchiai. Si trattava, almeno inizialmente, di proteste pacifiche, che però in molti casi sfociavano in atti dimostrativi anche violenti contro banche e multinazionali.
La polizia reagiva spesso con violenza. L’escalation culminò sul finire del 2001, quando il presidente Fernando de la Rúa dichiarò lo stato d’emergenza. Il 20 ed il 21 dicembre in Palza de Mayo – la piazza principale di Buenos Aires – gli scontri furono violentissimi. La polizia sparò sulla folla uccidendo circa quaranta persone. De la Rúa fu costretto a fuggire in elicottero per evitare il linciaggio.
Fu proprio allora, col paese scosso ed il presidente in fuga, che si iniziarono a porre le basi per una nuova Argentina. Partendo dalla prima decisione inevitabile: il default. Il nuovo governo ad interim dichiarò l’insolvenza su circa l’80 per cento del debito sovrano argentino, per un totale di 132 miliardi di dollari.
Subito dopo fu abolita anche la convertibilità a cambio fisso con il dollaro: il peso andò in contro ad una forte svalutazione. Inizialmente gli effetti furono devastanti: la percentuale dei cittadini al di sotto della soglia di povertà salì fino a sfiorare, nell’ottobre 2002, la quota del 60 per cento; circa il 30 per cento della popolazione era classificata in stato di povertà estrema, ovvero incapace di procurarsi il cibo.
I senzatetto divennero migliaia; in molti si dettero all’attività di cartoneros, ovvero raccoglitori di cartone, che cercavano frugando per strade e vicoli e poi rivendevano agli impianti di riciclaggio. Fu un passaggio doloroso ma inevitabile, ma è da lì che l’Argentina trovò la forza e prese la spinta per ripartire.
Alla guida del paese fu eletto Néstor Kirchner, un ex membro della gioventù peonista repressa nel sangue dalla dittatura militare del ’76. Durante il suo governo, e quello successivo della moglie Cristina Fernández, l’Argentina mise in atto politiche economiche di stampo nettamente diverse da quelle degli ultimi cinquant’anni che, sotto l’egira dei poteri forti della finanza globale – l’Fmi su tutti -, avevano contribuito a smantellare lo stato sociale e generato la crisi.
Il peso debole favoriva una ripresa delle esportazioni e il governo non esitava a stampare moneta per finanziare la ripresa economica e riattivare i circuiti di previdenza sociale e distrutti da anni di neoliberismo. Molte funzioni e servizi furono ripubblicizzati, dall’acqua, all’elettricità, all’istruzione.
Inoltre l’alleanza con il Brasile di Lula assumeva un’importanza strategica fondamentale nell’opposizione agli Stati Uniti che guardavano all’America Latina come ad un terreno fertile per gli investimenti delle proprie multinazionali. Ftaa, acronimo di Free trade areas of America, si chiamava il progetto. Alca in spagnolo. Era finanziato dal governo Bush e mirava ad abbattere ogni barriera fra stati delle americhe, con l’evidente scopo di favorire i commerci Usa e fare dell’America latina una fabbrica a basso costo. Nel 2005, a Mar del Plata, l’alleanza Kirchner-Lula risultò fondamentale nel contrastare i progetti imperialisti statunitensi ed opporsi fermamente al progetto, facendolo di fatto morire sul nascere.
Nel 2006, un anno più tardi, con il paese che dal 2004 era tornato a crescere a tassi record del 7-10 per cento annui, l’Argentina finì di onorare il proprio prestito con l’Fmi e decise di non contrarne di nuovi.
Oggi l’Argentina è un paese sovrano, che cresce con tassi fra i più elevati al mondo e lo fa aumentando le garanzie sociali, i servizi statali, i diritti dei propri cittadini. Sono riconosciuti i matrimoni omosessuali, la libertà d’informazione è garantita attraverso apposite leggi che impediscono i monopoli, il rispetto dei diritti umani è ritenuto uno dei principi fondamentali della repubblica. Nell’ottobre 2011 Cristina Fernández è stata rieletta alla guida del paese con il 54 per cento dei voti.
Esiste il modo di uscire dalla crisi senza passare per l’austerità, per la stabilità, ma piuttosto attraverso uno stato forte, che stampa moneta per finanziare servizi e ripresa economica. Certo, non in questa Europa, in cui l’emissione di denaro è affidata ad un manipolo di banchieri, a cui interessano i tassi di cambio dell’euro con il dollaro, l’inflazione, non certo il benessere degli euro-cittadini. Non in un’Europa, insomma, basata su un’unione esclusivamente finanziaria, senza uno straccio di politiche sociali condivise.
[Andrea Degl’Innocenti](http://www.ilcambiamento.it/autori/andrea_degli_innocenti/)