Nello specifico, l’obiettivo sarà quello di ridurre a due gradi l’entità del riscaldamento globale, invece dei quattro e più previsti da diversi studi scientifici – ad esempio lo studio “four degrees and beyond” finanziato dal governo britannico – entro la fine del secolo.
Nonostante l’emergenza climatica, il summit non parte sotto i migliori auspici. Le potenze mondiali vi arrivano a ranghi sciolti, con vedute anche molto diverse sul futuro accordo. Pesa, eccome, il fallimento del vertice di Copenaghen del 2009, che doveva sancire l’intesa definitiva e invece si è concluso nel caos, con un accordo di forma raggiunto sul finire giusto per nascondere la totale assenza di intenti comuni.
Sebbene l’incontro di Cancun dell’anno passato abbia iniziato a riassemblare i cocci, mettendo le basi per futuri accordi, ci sono fin troppi elementi che si oppongono ad un patto definitivo sul clima. Se l’Europa appare ben disposta a fare la sua parte, a patto che anche gli altri paesi facciano la loro, gli Stati Uniti sono di tutt’altro avviso.
L’amministrazione Obama, quella della promessa “green revolution”, ha fatto sapere che gli Usa non intendono ratificare il Protocollo di Kyoto, pietra miliare di ogni accordo sul clima. Il protocollo, sottoscritto ad oggi da 184 nazioni, era stato firmato inizialmente anche da Bill Clinton sul finire del suo mandato, ma il successivo governo Bush si era affrettato ad annullare l’adesione. Le speranza di molti ambientalisti erano riposte in Obama, ma a quanto pare resteranno deluse per l’ennesima volta.
“Questo non dovrebbe costituire un ostacolo al buon svolgimento della Conferenza”, ha dichiarato Todd Stern, inviato speciale Usa sul cambiamento climatico. Ma gli altri paesi non sono d’accordo. A frenare gli Usa sembrano essere le diverse misure previste dal Protocollo per i paesi industrializzati rispetto a quelli in via di sviluppo, con questi ultimi che, non essendo considerati responsabili della drammatica situazione attuale, si devono impegnare in misura decisamente minore a ridurre le proprie emissioni. Questa disparità permetterebbe all’economia cinese di avvantaggiarsi su quella americana, cosa considerata inaccettabile dall’amministrazione Usa.
Si è creata così una situazione di stallo dalla quale è difficile uscire. Nessuno dei paesi più inquinanti – Cina, Usa, Giappone, Russia e India – sembra disposto a fare il primo passo verso un futuro più sostenibile, per paura di perdere posizioni sullo scacchiere internazionale. Solo l’Europa presenta condizioni più concilianti. “L’Ue è pronta da anni a siglare un trattato globale a Durban, ma la realtà è che altre economie, come Usa e Cina, non lo sono” ha sottolineato il commissario Ue per il Clima, Connie Hedegaard.
“Siamo chiari – ha continuato Hedegaard – l’Ue sostiene il protocollo di Kyoto, ma un secondo periodo solo con l’Ue, che rappresenta solo l’11 per cento delle emissioni di CO2 del Pianeta, non è abbastanza per il clima, questo non può costituire un successo a Durban”. Già, perché a fronte dell’inquinamento europeo, stimato nell’11 per cento di quello globale, ci sono quello cinese e quello americano, che rappresentano rispettivamente il 18 ed il 24 per cento.
Ma cosa frena i grandi della terra a raggiungere un accordo vincolante sul clima? “Non si rendono conto della gravità della situazione?” viene da chiedersi. Secondo Greenpeace, la responsabilità è da ricercarsi non tanto fra governi e amministrazioni, quanto piuttosto nella rete delle grandi aziende inquinatrici. Il rapporto “Who’s holding us back?”, svela come un manipolo di multinazionali – tra cui Eskom, BASF, ArcelorMittal BHP Billiton, Shell e le industrie Koch -, le associazioni di categoria e le corporazioni di cui fanno parte stiano condizionando pesantemente i governi e i negoziati politici riguardo alle leggi per la protezione del clima.
“Se i Governi vogliono scongiurare le conseguenze irreversibili dei cambiamenti climatici, devono ascoltare i cittadini, prima ancora dei mercati, e agire nell’interesse della collettività”, ha dichiarato Salvatore Barbera, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia. “A Durban è giunto il momento di dar voce alla gente, non alle multinazionali dell’inquinamento”.
Gli fa eco Mariagrazia Midulla, responsabile Policy Clima ed Energia del WWF Italia, quando sostiene che “Durban deve riportare il mondo alla realtà scientifica del cambiamento climatico e delle sue conseguenze, eliminando anche le scappatoie esistenti. Le soluzioni alla crisi ambientale saranno anche un’importante opportunità per rilanciare l’economia verso un futuro più sostenibile, equo e sicuro”.
Il Wwf prova anche a proporre una scaletta alle potenze mondiali sui possibili risultati di Durban: un accordo vincolante per un secondo periodo di impegni nel quadro del Protocollo di Kyoto nella maggior parte dei Paesi industrializzati possibile, che preveda il picco delle emissioni nel 2015 ed una riduzione dell’80 per cento entro il 2050.
Anche Legambiente dà il suo contributo in vista del summit di Durban, con uno studio realizzato assieme ad AzzeroCO2 e Istituto di ricerche Ambiente Italia. Lo studio si incentra più sul nostro paese, facendo emergere il quadro di “un’Italia a metà del guado nelle politiche di efficienza energetica, con piani poco ambiziosi e misure spesso generiche, ma anche segnali estremamente positivi che giungono dagli interventi realizzati in questi anni e, soprattutto, da una potenzialità rilevantissima di risparmi in tutti i settori industriali”.
Insomma, il quadro complessivo delle nazioni che si apprestano a partecipare al summit non sembra dei più confortanti. Ma il tempo stringe ed un accordo globale è quanto mai urgente. Proprio ieri la World meteorogiical organization ci ricordava che le concentrazioni di gas serra in atmosfera hanno praticamente raggiunto il punto di non ritorno.
di Andrea Degl’Innocenti