L’incontro tra giornalisti e comunicatori si è svolto presso l’Instituto Movilizador de Fondos Cooperativos di Mar del Plata. Hanno partecipato Susy Scándali (quotidiano La Capital), Belén Cano (quotidiano El Atlántico), Pablo Vasco (radio Cooperativa Residencias), Gonzalo Chaet (ricercatore in Comunicación) e Iván Novotny (Agenzia Stampa Pressenza).
Di seguito viene trascritta l’esposizione di Iván Novotny, editore di Pressenza a Buenos Aires, in risposta a tre domande:
Qual è la sua opinione riguardo al fatto che i media tendano a diffondere fatti violenti.
È chiaro che esiste una tendenza da parte di editori, direttori, proprietari di media, in particolare quelli più conservatori, a dare maggiore diffusione, a potenziare l’informazione intorno ai fatti violenti.
Quello che qui vorrei tentare di spiegare è il “perché” esiste questa intenzione previa, questo interesse per la diffusione, per la massimizzazione di fatti violenti.
In primo luogo voglio condividere con voi la definizione data da Silo nel suo discorso “Le condizioni del dialogo” tenuto presso l’Accademia delle Scienze di Russia nel 1993. Silo dice “Perché esista un enunciato è necessario che ci sia un’intenzione previa che permetta di scegliere i termini e la relazione fra di essi” (…) “L’intenzione previa al discorso pone l’ambito, cioè l’universo nel quale si espongono le proposizioni”.
Tornando al nostro argomento di oggi, è chiaro che perché un canale, per esempio TN o C5N trasmetta tutto il giorno instancabilmente notizie su un sequestro o un omicidio, ci deve essere qualcuno che ha la previa intenzione di farlo (l’editore, il capo dei contenuti, il proprietario del canale, ecc.). Una persona o un gruppo di persone ha intenzione di trasmettere un determinato discorso, e di farlo in un certo modo.
A cosa punta tale intenzione? A risolvere veramente il problema della violenza? A generare terrore nei telespettatori? A frammentare la società? A generare individualismo, sfiducia? A distrarre da altri temi? A generare un sensazionalismo che le permetta di ottenere ascolti maggiori? A determinare una certa conseguenza politica o elettorale? O, senza conferirle tanta importanza, potrebbe essere perché non sanno fare altro? E la lista delle possibili ipotesi potrebbe continuare all’infinito.
Perché se qualcuno affermasse che l’intento è semplicemente quello di informare, che l’informazione è obiettiva, che semplicemente si riportano i fatti, questo sarebbe totalmente inaccettabile, dal momento che esistono numerosi fatti, dei quali i media non si occupano nel modo più assoluto. È chiaro che c’è una selezione, un punto di vista, un interesse a produrre un certo tipo di effetto, come dicevamo, un’intenzione che porta a produrre un determinato discorso informativo.
Per fare un esempio molto recente, ieri il quotidiano La Capital nel suo articolo di copertina titolava “Cresce la mobilitazione dei vicini che chiedono maggiore sicurezza”. Per poi più giù descrivere che “Più di cento cinquanta marplatensi si sono dati appuntamento a Tejedor e a Constitución e stanno organizzando nuove proteste per i prossimi fine settimana”.
È clamoroso, un articolo di copertina per una mobilitazione di 150 persone, non può considerarsi una notizia. Con questo intendo dire che alle diverse attività della Settimana della non violenza hanno partecipato molte più persone, senza tuttavia meritare un articolo di copertina su questo prestigioso giornale di Mar del Plata.
Se andiamo ancora un po’ più a fondo nella notizia di copertina del quotidiano La Capital leggiamo di una petizione di nove punti di questi vicini. Mi ha molto colpito questo paragrafo che riporto, citando un documento di quest’organizzazione di “vicini marplatensi” come vengono definiti: “Pertanto intendiamo che l’atto di uccidere è un fatto aberrante sempre che venga commesso senza alcuna giustificazione come può invece essere la legittima difesa, quindi chiedere la revisione di queste leggi per adeguarle alla situazione attuale potrebbe non essere una cosa tanto assurda”.
Questo significa che queste persone stanno chiedendo la possibilità di uccidere altre persone in caso di autodifesa, che venga legalizzato l’omicidio. E il quotidiano La Capital gli ha riservato la copertina. Questo è solo un esempio per far capire la situazione, ma ci sarebbero centinaia di esempi sul Clarín, TN, C5N, La Nación, e i media che sembrano essere interessati alla violenza.
Dunque, qual è l’intenzione che induce a un tale modo di trattare le notizie? Da qui non possiamo dare una risposta a questo interrogativo, non siamo in grado di dire qual è il vero motivo che induce queste strutture mediatiche a generare un’intossicazione di informazioni su fatti violenti, qual è l’intenzione che induce a manipolare l’informazione per produrre una determinata opinione pubblica, per influire in questo modo sulla soggettività degli utenti di questi media. Solamente loro potrebbero rispondere, sebbene credo sia difficile che prima o poi lo facciano.
Voglio che sia chiaro il fatto che non sto dicendo che non bisogna informare su questi fatti, hanno tutta la libertà di espressione e di stampa per farlo. Quello che mi sembra interessante da rilevare è che questo trattamento dei fatti violenti non serve a superare la violenza, non mira a formare una coscienza su una nuova cultura basata sulla nonviolenza.
Per questo motivo mi sembra molto importante puntare sulla nascita di tutta una serie di media alternativi, comunitari con ambizioni diverse, più evolute, più innovative, che mirino a formare una società e un essere umano evoluto, con uno sguardo nonviolento che aiuti a superare la violenza non solo fisica, non solo dell’insicurezza quotidiana, della strada, ma la violenza in tutte le sue forme, la violenza economica, psicologica, di genere, etnica.
Questo è quello che tentiamo di fare dalla nostra Agenzia Stampa internazionale, Pressenza, approfondiamo l’aspetto nonviolento della notizia, cerchiamo di potenziare l’azione di organizzazioni sociali, istituzioni, Governi, individui che abbiano intenzione di superare la violenza. Così per esempio ci siamo occupati della
Marcia mondiale per la Pace e la Nonviolenza che ha attraversato il pianeta nel 2009, adesso ci stiamo occupando delle numerose azioni nei diversi Paesi in occasione della Giornata internazionale della nonviolenza e in questo modo quotidianamente cerchiamo di informare su tutto ciò che serve a potenziare i diritti umani, la non discriminazione, la diversità culturale, l’umanità e l’organizzazione dei popoli in una direzione umanizzatrice.
Crede che siano responsabili i media e/o i giornalisti e comunicatori dell’idea generale secondo cui viviamo in una società sempre più pericolosa.
Sì, credo che i direttori editoriali siano responsabili; in secondo luogo c’è una certa responsabilità anche del giornalista che accetta una certa linea editoriale, la generazione di idee che vanno costituendosi in un “sentire comune”, quelle idee che producono stereotipi, sensibilità, credenze e valori. Anche se non si può attribuire tutto il potere di creare queste idee e credenze ai media, ciò nonostante esiste una “sensibilità epocale” nei lettori, in un determinato momento storico che accetta certe idee. È un circolo vizioso.
Perché se un canale d’informazione insiste dando notizie sulla delinquenza, ponendo l’accento su fatti in cui il delinquente presenta determinate caratteristiche (minore, povero, nero, ecc.) tale rappresentazione rimane impressa in chi ascolta la notizia.
E quando per strada vedrà una persona con le stesse caratteristiche, subito la assocerà a quella rappresentazione, a quell’idea che quel canale ha proposto così insistentemente. Ecco quindi che nella gente crescono i timori, i pregiudizi e le notizie sull’insicurezza rafforzano l’idea secondo cui viviamo in una società sempre più pericolosa.
Al di là poi del fatto se questa pericolosità sia o no effettiva. Quello che accade è che rimane la sensazione di pericolosità, di insicurezza, si va rafforzando quella rappresentazione.
Quindi i media operano direttamente nel campo della soggettività, dei valori, delle idee. Perché se i media utilizzassero la stessa insistenza per informare su azioni nonviolente di organizzazioni che cercano di superare la violenza, sicuramente contribuirebbero a diminuire la pericolosità, a fare in modo che coloro che hanno il potere di decidere attuino politiche integrali per superare la violenza. Se, invece come accade adesso, si insiste su informazioni di fatti violenti, si va generando una spirale di violenza, in cui il punto di vista violento della violenza, genera altra violenza. Credo che i media abbiano una grande responsabilità nel generare una violenza psicologica, quella che fa sì che gli indici delle fobie, depressione, e che i disturbi psicologici aumentino.
Allora capisco che i media e noi giornalisti dovremmo stare più attenti circa la nostra responsabilità, soprattutto quando si tratta di media molto diffusi. Dal momento che siamo responsabili, poiché il materiale giornalistico che produciamo non rimane a noi, ma va ad altri, e in questi altri produce qualcosa, un risultato.
Quindi se mettiamo il nostro lavoro al servizio degli altri, al servizio della società, se poniamo l’etica giornalistica al di sopra degli interessi economici e/o politici, possiamo contribuire a fare in modo che se veramente la nostra società risulta sempre più violenta e pericolosa, ci impegniamo a dare una risposta e non viviamo quotidianamente nel timore e nella paranoia. In questo modo servendoci del nostro ruolo aiutiamo a superare la violenza.
Come dovrebbe essere trattata la violenza nei media e il giusto ruolo del giornalista.
Credo che i media dovrebbero trattare la violenza da un punto di vista nonviolento. Perché se invece lo si fa da un punto di vista violento, la violenta aumenta in una spirale crescente. Perché a volte sembra che i media si divertano con la violenza, il sensazionalismo, sembra che aspettino un fatto con molti morti per poter avere una notizia forte. Questa è un visione violenta.
Aspettare che la violenza venga fuori per poi dare la notizia, è un atteggiamento tipico della stampa sensazionalista.
Il comportamento dovrebbe essere quindi di responsabilità morale, etica. Tenendo conto delle conseguenze di informare su un fatto violento. Con questo non dico che bisogna occultare queste informazioni, ma informare con serietà, con chiarezza, con responsabilità. Stando attenti alle conseguenze del come si informa. Un esempio recente è l’atteggiamento assunto nel caso Candela dai media egemonici e l’irresponsabilità nell’informare su quella tragedia, con invenzione di ipotesi, informazioni a volte favoleggianti sull’azione giudiziaria, ecc.
In particolare credo che il punto di vista dei media, la priorità, dovrebbe essere quella di informare sulle azioni esemplari, quelle che realizzano i Governi, i popoli, le organizzazioni e gli individui verso gli uomini. Porre l’accento sulle azioni solidali, sulle buone azioni e lasciare in secondo piano i fatti violenti e sgradevoli. Perché il detto secondo cui “una buona notizia non è una notizia”, è valido per il punto di vista violento della violenza assunto da media e giornalisti sensazionalisti. Le buone notizie dovrebbero essere le più importanti nell’agenda mediatica. E la notizia negativa bisognerebbe trattarla con maggiore responsabilità, con etica e cercando, per quanto possibile, di informare sul fatto in modo neutrale, con l’intento di informare anche circa una risposta che superi il conflitto violento che si sta affrontando.
Se noi giornalisti ci rendessimo conto della responsabilità sociale che abbiamo, del fatto che il nostro lavoro non è neutrale, non è obiettivo e produce sempre delle conseguenze importanti, se ci collegassimo con quanto di meglio abbiamo, con la parte veramente umana che abita in noi, con la bontà, con l’intenzione evolutiva che cerca di crescere in ognuno di noi, il ruolo di giornalisti sarebbe molto importante per il cambiamento sociale di cui abbiamo bisogno per superare la violenza che ci attanaglia.