Un anno fa quando venne dato il via all’operazione “Piombo fuso”, mi trovavo nel Nordest del Brasile, e la notizia mi venne data da un ex-senatore della regione che aveva personalmente conosciuto Yasser Arafat durante una missione parlamentare. Si presentò sulla soglia di casa nostra con una kūfiyya al collo, e tutto mi sembrò assurdo, lontano dalla realtà. Poi dovetti cedere all’evidenza cliccando su haaretz.com. La migliore definizione della realtà che ho letto in questi ultimi anni appartiene proprio ad un giornalista di quella testata, Aluf Benn. Verso la fine della seconda Intifādha, intitolò un articolo “Playstation Palestine” per indicare quanto i palestinesi fossero parte di uno scenario in cui loro non contassero più che le sagome di un un videogioco. Tutto è possibile dire, proclamare, minacciare o rivendicare a proposito del futuro dei palestinesi, ma nulla cambia, esattamente come quando premi sul pulsante del videogioco per ricominciare da zero. Un giorno, la scrittrice Suad Amiry mi confidò che una sola è la domanda che conta in tutta questa faccenda, quella che noi che ci interessiamo della Palestina e chiunque ne faccia oggetto di una conversazione o dichiarazione dovrebbe farsi: “Quanti metri quadrati di terra sono stati sottratti ai palestinesi oggi?”. Ed il giorno seguente: “Quanti metri quadrati di terra sono stati sottratti ai palestinesi oggi?”. Ed ogni giorno la stessa domanda. Tutto si capisce e si giustifica attraverso la macchina dell’espansione coloniale. Il resto che merita di essere riportato sono gli effetti collaterali che chiunque può constatare attraversando la Striscia di Gaza, la Cisgiordania od i quartieri arabi di Gerusalemme, e che coraggiosi giornalisti e instancabili organizzazioni per i diritti umani registrano con rigore: arresti, demolizioni di case, restrittive norme sul ricongiungimento famigliare, morti e feriti, limitazioni alla mobilità di beni e persone, inique regolamentazioni fondiarie, editti dell’amministrazione militare, barriere di sicurezza. Ed ancora: le storie di donne e uomini comuni, che parlano di loro stessi, non di altri; non di negoziazioni e anticamere, ma di loro stessi; non di principî e ideologie, ma di loro stessi; non di momenti opportuni e strategie, ma di loro stessi. Come l’ottuagenario padre di Abdallah, che firmò un atto di cessione delle sue terre ad un agente israeliano che si spacciava per un inviato del Vaticano. O Munira, che per essersi rifiutata di abbandonare la propria dimora al limite della colonia di Al Kanaa si è vista recintare casa e cortile con barriere di cemento e cavi elettrificati. Come Rania, la donna russa che pur di raggiungere suo marito a Gaza si è fatta anestetizzare e calare dentro una di quelle gallerie sotto la frontiera con l’Egitto che permettono alla gente di sopravvivere. O Rawan, che dall’anno 2000 non ha più visto suo marito ed i tre figli, rimasti a Gaza mentre lei era in visita di famiglia a Ramallah. Come Abu Yousef, che un anno fa, quando l’aria si riempiva del fumo incendiario delle bombe al fosforo, copriva la testa dei bambini con dei tessuti. O quel padre di cui non conosco il nome, che rimasto senz’acqua in un edificio circondato dai soldati durante tre giorni con i due bimbi, ne appagava la sete con la propria urina(1).
Tuttavia, nulla vale quanto prima. La virulenza delle operazioni militari e la legittimazione politica del disprezzo razziale successiva all’ultimo attacco a Gaza rappresentano un’accelerazione straordinaria nel processo di disintegrazione dei palestinesi e della loro storia, pari forse per pregnanza simbolica alla cacciata dei palestinesi dalle loro case alla vigilia della creazione dello stato di Israele. È l’atto risolutivo, l’ultima prova di orgoglio, di un ciclo che ha fondato l’avventura sionista sulla negazione dell’esistenza di una Palestina e di una nazione palestinese. Il ciclo si conclude, la Palestina è stata finalmente cancellata, la conservazione della memoria della Nakba diventerà presto un atto criminale legalmente perseguibile dalla giustizia israeliana, la prospettiva dell’istituzione di uno Stato palestinese si è ridotta ad uno sterile argomento di autogiustificazione politica in Occidente e nella Umma araba, l’Egitto vende il gas naturale ad Israele mentre a Gaza scarseggiano materiali grezzi come vetro e cemento. Il ciclo si conclude, ed emergono in superficie le pulsioni profonde, quelle che rendono tutto possibile perché il palestinese è stato disumanizzato.
Nel settembre dell’anno scorso, tre mesi prima dell’attacco a Gaza, entrai nella Striscia dal posto di frontiera israeliano di Erez: una ragazza poco più che ventenne stava seduta nella cabina di controllo posta all’ingresso del complesso dove si effettuano controlli di documenti e ispezioni di sicurezza, riempiendo cruciverba. Una donna palestinese con una lattante stavano aspettando l’okay per entrare. Era Ramadhān, e la ragazza fece aspettare al sole per ore la madre in digiuno, con la neonata appesa al seno: senza ragione. Undici mesi dopo l’attacco a Gaza, durante un corso di addestramento pre-militare yeshiva, il Capo rabbino dell’esercito israeliano Avichai Rontzki, citando un passaggio del Libro di Geremia(2), ammoniva che chi mostra grazia verso il nemico in guerra sarà dannato. Non sono questi che alcuni dei segnali dell’affermazione di un clima di scontro identitario aperto, deliberato o declamato. Un clima che si è esteso a buona parte dell’emisfero euro-mediterraneo, che si alimenta del cancro di conflitti irrisolti, in primis quello israelo-palestinese, ridefinisce in termini totalitari l’ideologia sionista ed ispira una nuova forma di antisemitismo, le cui vittime sono i “nuovi ebrei”, ovvero gli arabi, in particolare i musulmani arabi, e per estensione i musulmani in senso lato. Di costoro, i palestinesi riuniscono praticamente tutti gli elementi di una nuova cultura che descrive lo straniero come problema sociale, elemento destabilizzatore di società benestanti: è pur vero che i palestinesi ispirano simpatie per la tragica storia che portano appresso, ma è anche vero che sono arabi, in maggioranza musulmani e hanno usato la violenza terroristica per affermare i propri diritti all’autodeterminazione; quindi, come “nuovi ebrei”,”non-bianchi” non avranno mai questo Occidente coerentemente e convintamente al loro fianco. Come potremmo immaginare l’Europa sostenere una indagine per presunti crimini di guerra perpetrati dai dirigenti israeliani durante l’ultimo attacco a Gaza, in un contesto che pare ridefinirsi in regioni antropologicamente e culturalmente separate, nelle quali i segni di appartenenza (il minareto, l’origine etnica, il crocefisso) marcherebbero le frontiere tra il mondo moderno e la barbarie? Inimmaginabile, vana battaglia.
Il ciclo ha raggiunto il suo apice, e dopo tutto sarà possibile, come la soppressione della questione palestinese, la deportazione degli uni in nome della storia degli altri e il superamento di conflitti di natura politica ed economica non attraverso la loro soluzione, bensì attraverso ripiegamenti identitari che ridefiniscano i nostri valori fondanti. Provate a interrogare i vostri vicini se sia più importante dio o la democrazia, le tradizioni oppure la giustizia, il potere acquisitivo oppure la libertà di espressione: non mi stupirebbe scoprire che per molti di noi occidentali la risposta non sarebbe così chiara; né mi stupirebbe ascoltare voci che difendano i secondi termini proprio a Gaza, dove assedio e repressione interna mettono a dura prova la comunità civile.
Il cerchio ha raggiunto il suo punto di sutura, e dopo tutto sarà possibile, anche l’impossibile. Il peggior provato nemico dello Stato di Israele sono gli israeliani stessi, che a questo ritmo porteranno il loro paese verso l’isolamento internazionale, un contesto di crescente instabilità regionale, la repressione interna ed il degrado irreversibile della coesione tra i diversi gruppi della società israeliana; loro stessi si convertiranno nelle sagome di una nuova postazione di gioco, Playstation Israel. Gli obiettori di coscienza israeliani, o Another Voice for Sderot, che durante gli ultimi bombardamenti a Gaza hanno alzato la voce contro, ne hanno già pagato le conseguenze con i tribunali militari e il disprezzo pubblico. Per questo, alcuni di loro, con uno straordinario coraggio civico e politico di cui nemmeno i diplomatici di Bruxelles sanno dare prova, chiedono pubblicamente il dialogo con Hamas(3). Per questo, altri come Ta’āyush o Combatants for Peace riuniscono giovani israeliani e palestinesi che lottano insieme contro la violenza dell’apparato militare e civile israeliano verso i palestinesi, dimostrandosi più forti di chi vorrebbe la rottura di ogni relazione tra le due comunità. Per questo, altri come Alternative Information Center difendono da Gerusalemme le campagne di boicottaggio del proprio paese, sfidando chi li accusa di essere antipatriottici.
Se ancora è ammesso esprimere dei desideri per l’anno che viene, io chiederei le cose seguenti:
– Che i dirigenti occidentali che hanno usato la migliore oratoria per difendere l’operazione “Piombo fuso” vengano pure indagati per istigazione alla violenza e concorso in reato.
– Che i palestinesi della Cisgiordania possano mettere i piedi nel mar Mediterraneo sotto giurisdizione israeliana.
– Che i palestinesi formino un governo di unità nazionale, annuncino l’istituzione unilaterale dello Stato palestinese e concedano la cittadinanza a tutti i coloni israeliani che vogliano conservare la residenza nei Territori occupati.
– Che la Palestina chieda l’adesione agli Stati Uniti d’America e faccia un accordo di libero scambio con la Cina.
– Che gli U2 vengano a cantare a Gaza e Emir Kusturica faccia un film sui tunnel sotto la frontiera di Rafah.
– Che il sindaco di Tel Aviv candidi la cittadinanza della Striscia di Gaza al Nobel per la pace.
– Che il museo di Yad Vashem apra una sezione sulla pulizia etnica del 1948 nei villaggi arabi della Palestina storica e sulla diaspora palestinese.
– Che l’ordinamento scolastico di studenti israeliani e palestinesi preveda il bilinguismo.
– Che l’aeroporto di Gaza venga dedicato a Mahmud Darwish.
Scusatemi della lunghezza della lista, ma le Playstations, almeno questo, lo permettono.
1) Ho riportato storie di persone che ho conosciuto personalmente, tranne l’ultima, che mi ha raccontato un testimone oculare durante il mio ultimo viaggio a Gaza (febbraio 2009).
2) “Maledetto chi compie il lavoro del Signore con mano incerta, e maledetto chi trattiene la sua spada lontano dal sangue” (cfr. Anshel Pfeffer, “IDF Chief Rabbi: Troops who show mercy to enemy will be damned”, Haaretz, 15 novembre 2009).
3) “Talk to Hamas” è un’iniziativa lanciata nel mese di novembre 2009 dai fondatori di Courage to Refuse, il movimento dei soldati che si rifiutarono di servire nei Territori palestinesi occupati durante la seconda Intifādha.