Ricevendo il Premio Nobel della Pace, il presidente degli USA Barack Obama ha detto che “nonostante tutta la crudeltà e le avversità del nostro mondo, non siamo semplici prigionieri del destino. I nostri atti hanno importanza e possono cambiare la rotta della storia e portarla verso la giustizia.”
Molte delle frasi del suo discorso denotano la contraddizione che vive chi si riconosce “come qualcuno che è qui come conseguenza diretta del lavoro al quale il Dr. King aveva dedicato la vita, sono prova vivente della forza morale della nonviolenza.” “La violenza non produce mai pace permanente. Non risolve i problemi sociali: semplicemente crea problemi nuovi e più complicati.” “So che non c’è debolezza, passività, ingenuità nelle convinzioni e nella vita di Gandhi e King”. Ma allo stesso modo, nella sua qualità di capo di Stato che ha giurato di proteggere e difendere il suo paese, “garantendo la sicurezza mondiale per più di sei decadi col sangue dei nostri cittadini e il potere delle nostre armi.” Benché sappia che “in molti paesi c’è oggigiorno un profondo disaccordo con l’azionare militare, indipendentemente dalla causa. E a volte, a questo si somma una diffidenza automatica nei confronti degli Stati Uniti, l’unica superpotenza militare del mondo”.
Prende allora le parole che il Presidente Kennedy propose tempo fa. “Concentriamoci”, ha detto “in una pace più pratica, più attuabile, basata non su una rivoluzione repentina della natura umana, bensì su un’evoluzione graduale delle istituzioni umane”. E l’Obama dei grandi sogni passa a giustificare la politica della cosa possibile.
E dice “il compromesso degli Stati Uniti con la sicurezza mondiale non si indebolirà mai. Ma in un mondo in cui le minacce sono più diffuse e le missioni più complesse, gli Stati Uniti non possono agire da soli. Gli Stati Uniti da soli non possono raggiungere la pace. Questo è il caso dell’Afghanistan. È il caso degli stati falliti come la Somalia, dove il terrorismo e la pirateria accompagnano la fame e la sofferenza umana. E purtroppo, continuerà ad essere la realtà nelle regioni più instabili nel futuro. I leader e i soldati dei paesi della NATO lo dimostrano per mezzo dell’abilità che hanno mostrato in Afghanistan. Ma in molti paesi, c’è una breccia tra gli sforzi dei militari e l’opinione ambivalente del pubblico in generale. Comprendo perché la guerra non è popolare. Ma so anche che, la convinzione che la pace è desiderabile, raramente è sufficiente per raggiungerla. La pace richiede responsabilità. La pace implica sacrificio. È per questo che la NATO continua ad essere indispensabile. È per questo che dobbiamo rinforzare gli sforzi per mantenere la pace a livello regionale attraverso l’ONU, e non lasciare il compito solo nelle mani di alcuni paesi. È per questo che rendiamo omaggio a chi torna a casa dalle missioni per il mantenimento della pace e per l’addestramento all’estero, a Oslo e Roma; Ottawa e Sydney; Dhaka e Kigali; gli rendiamo omaggio non come artefici di guerra bensì come promotori, come promotori della pace.”
Ormai Obama non parla dell’audacia della pace, dell’aspirazione di costruire, attraverso la metodologia della nonviolenza attiva, un tipo di società dove non è possibile esercitare alcuna forma di violenza. Sebbene si compromette a “evitare la proliferazione di armi nucleari passo per un mondo disarmato”, e dice: “È l’asse della mia “politica estera”.
Tenta di definire la pace che cerca come una “pace giusta, basata sui diritti e la dignità di tutte le persone”. “Una pace giusta prevede non solo diritti civili e politici, ma deve abbracciare la sicurezza economica e le opportunità, perché la pace vera non è solamente la mancanza di paura, ma anche la mancanza di privazioni.” “Accordi tra nazioni. Istituzioni solide. Appoggio ai diritti umani. Investimenti per lo sviluppo. Tutti questi sono ingredienti vitali per propiziare l’evoluzione della quale ha parlato il Presidente Kennedy.”
Sarà l’Afganistan per Obama il Vietnam di Kennedy?
Ma oggi il mondo è abbastanza più complesso, come riconosce il presidente nordamericano. “Dato il vertiginoso ritmo della globalizzazione e l’omogeneizzazione culturale promossa dalla modernità, non dovrebbe sorprenderci che la gente tema di perdere quanto apprezza della propria particolare identità: la sua razza, la sua tribù e chissà forse più di tutto, la sua religione. In alcuni posti, questa paura ha prodotto conflitti. A volte, sembra addirittura che stiamo retrocedendo. Lo vediamo nel Medio Oriente, dove il conflitto tra arabi ed ebrei sembra aggravarsi. Lo vediamo nei paesi dove le divisioni tribali causano stragi.” E sostiene che “Una prospettiva tanto distorta della religione non è solo incompatibile con il concetto della pace, ma credo anche che sia incompatibile con il proposito della fede, perché la regola di vitale importanza in tutte le principali religioni è trattare gli altri come vorresti essere trattato”.
“Compiere questa legge d’amore è stato sempre il faro nella lotta della natura umana. Non siamo infallibili. Commettiamo errori e cadiamo in preda alle tentazioni dell’orgoglio e del potere, e a volte della malvagità. Perfino i miglior intenzionati tra noi, a volte non modifichiamo gli errori che abbiamo davanti.” Forse sarà chiedere troppo, ma speravamo che Obama rettificasse gli errori dell’aggressione bellica dei governi nordamericani anteriori. Crediamo, come lui, nei modelli di condotta non violenta. “La Nonviolenza che praticavano uomini come Gandhi e King forse non è praticabile in tutte le circostanze, ma senza dubbio lo è l’amore che predicarono, la loro fede nel progresso umano, che deve essere sempre la stella che ci guida nella nostra traversata.”
“Perché se perdiamo quella fede, se la scartiamo come ingenua, se esiste un divorzio tra questa e le decisioni che prendiamo su temi di guerra e pace, allora perdiamo la cosa migliore della nostra umanità. Perdiamo il senso di quanto possiamo ottenere. Perdiamo il nostro compasso morale.”
Traduzione dallo Spagnolo di Annalisa Pensiero